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Scritto da Administrator   
giovedì 05 aprile 2007

Il Sole era sorto ad Est come sempre. E come sempre mi avviavo al lavoro. Come sempre avevo preso la linea 8 del Metro, da Creteil Prefecture a Balard, ero sceso a Dausmenil, stazione della linea 6, da Nation a Charles De Gaulle Etoile, infine scendendo da Montparnasse Bienvenue, ultimo cambio, avevo preso la linea 13 da Saint Denise Basilique a Chatillon Montrouge, per scendere a Gaitè.

Il convoglio era ripartito stridendo alle mie spalle, era quella una della linee gommate, dove i vagoni non sono veri vagoni ma sono muniti di gomme come dei pullman. Le stazioni del Metro a Parigi sono, solitamente, immense, dato l'alto numero di linee che si incrociano, tranne quando mancano poche fermate alla conclusione, quando cominciano ad uscire dal centro vitale della metropoli per dirigersi verso la periferia, allora diventano ridicolmente piccole, se rapportate alle loro consorelle parigine. Io sono stato a Londra e là nessuna stazione può dirsi piccola, come d'altronde a New York. A Roma ed a Milano sono invece incredibilmente concentrate, veri capolavori di miniaturizzazione. A Mosca sfarzose come mai ci si immaginerebbe.

Quella dove mi trovavo era una di queste stazioni periferiche, se possiamo definire periferico un quartiere dove vivono e lavorano oltre trecentomila persone, molte di più di quante non ne contino Tour od Orleans nei distretti della Loira, o Montpellier e Perpignano nel Golfo del Leone, più di Strasburgo sul confine tedesco o di Le Havre sulla Manica, più di Digione ai piedi del Massiccio centrale, poco meno di Bordeaux o Lione, una vera città insomma che viveva e prosperava ai margini della Divina Parigi.

Non era molto interrata, quasi in superficie. Non vi era stato quindi bisogno di un’imponente scala mobile, come quella che colmava i 65 metri di dislivello della stazione di Piazza Esedra in Roma, e neppure abbisognò di un tapie roulant di duecento metri come a Montparnasse, ma semplicemente una ventina di gradini in rozzo travertino, ormai butterato dal tempo, dalle intemperie e dalle piogge acide.

Salii uno ad uno, con flemma, i pochi gradini ed arrivato al livello della strada aspirai a pieni polmoni. Proprio non mi riusciva di respirare negli angusti cunicoli del Metro, quei venti minuti nella sotterranea li trascorrevo quasi in apnea, cercando di sfruttare al massimo le poche molecole di ossigeno che riuscivo ad aspirare. Mentre con il collo teso e gli occhi chiusi inalavo quell'aria tersa qualcosa colpì i miei sensi, in particolare il mio udito, niente. Esatto... niente. Nessun rumore, nessun clacson, nessun vociare ... niente. Riaprii immantinente gli occhi, unendo allo stupore uditivo anche lo stupore visivo. Ciò che non avevo udito non c'era. Nessuna macchina rombante ai semafori, nessun pedone a vista d'occhio.

Davanti a me si apriva Avenue du Maine, larga, diritta, tra alte file di palazzi ma completamente deserta. Sembrava d'essere in estate, quando alle cinque di mattina il Sole già illumina le vie, ma gli assonnati umani riposano nei loro comodi letti le loro stanche membra, mi era capitato un paio di volte di alzarmi presto d'estate per lasciare Parigi prima che si svegliasse ma mai e poi mai mi era apparsa così ... Inesistente. Ruotai su me stesso per rendermi meglio conto della situazione. Alla mia destra Rue Juan Zay, con in fondo la sua fontana tonda, deserta. Alla mia sinistra Avenue La Gaité‚ Montparnasse, dalla quale si intravedeva uno spigolo della chiesa di Notre Domine des Champs ed in fondo Boulevard Raspail, deserta. Alle mie spalle l'imponente mole della Tour Montparnasse.

Proprio la Tour Montparnasse mi apparve ancor più strana di tutto il resto. Mostrava un'aria dimessa, le sue sempre lucide vetrate erano invece opache ed anzi molte erano infrante. Come folgorato abbassai lo sguardo verso l'uscita del Metro dalla quale provenivo e trasalii: era sbarrata. Non chiusa, ma sbarrata. La breve scalinata che conduceva ad essa era ricoperta di una strana polvere grigiastra, le porte a soffietto tenute insieme da una poderosa catena chiusa da un grosso lucchetto, entrambi arrugginiti. Le porte a vetri distrutte.

Mi diressi verso la Tour irresistibilmente, attratto. I magazzini Lafayette che occupavano l'intero pianterreno erano distrutti. Banconi divelti, scaffali riversi al suolo, moquette lacerata. Istintivamente andai all'ascensore e lo chiamai, prima ancora di rendermi conto della inutilità del mio gesto, le porte metalliche mi si aprirono dinnanzi, non persi tempo a chiedermi perché‚ in tutto quello sfacelo l'ascensore funzionasse. Lo presi e spinsi il tasto corrispondente alla terrazza panoramica a duecentonove metri dal suolo. Come suo solito l'ascensore più rapido d'Europa tenne fede alla sua fama, depositandomi barcollante, per la rapida salita, all'ultimo piano, percorsi titubante le due rampe finali e finalmente sboccai sull'ampia terrazza. La bianca mole de Le Sacre Coeur, colpita dal sole, brillava all'orizzonte. Ho sempre creduto che il suo costruttore abbia fatto un patto col diavolo; sempre, anche nei giorni di pioggia o di cielo coperto la costruzione godeva di un raggio di Sole, solo per lei. Posseggo foto di Parigi, scattate dalla Tour Eiffel, dove tutta Parigi giace nell'ombra, mentre il quartiere di Montmatre beneficia di un'aureola di luce personale.

Parigi era ancora là. Tutta quanta. I giardini del Lussemburgo, la Torre di San Giacomo, Notre Dame, il Louvre, le Centre Pompidou e la maestosa Tour Eiffel. Devo ammettere che la sua vista ebbe su di me un effetto calmante, come la vista della mamma quando da bambino mi svegliavo in piena notte, grondante sudore, dopo aver fatto un brutto sogno. Le fontane del Trocadero erano perfettamente funzionanti ed in quel silenzio mi parve persino di udire il loro gorgoglio.

Per la prima volta dall'inizio dei fatti, pensai che qualcosa doveva essere successo, a me e solo a me mentre uscivo dal metro. Si cominciava a quel tempo a parlare della possibilità di viaggiare nel tempo, la tecnologia aveva fatto passi da gigante, specialmente durante la terza guerra mondiale. Le guerre sono terribili ma bisogna ammettere che sotto il loro impulso le scienze progrediscono come in cinquant’anni di pace. Esempio ne sia la seconda guerra mondiale che vide la civiltà iniziarla con rudimentali carri armati e terminarla con il radar e gli aerei a reazione; senza dimenticare i V2. In soli cinque anni un progresso di decenni che permise in poco più di vent’anni di raggiungere la Luna.

Diedi un'occhiata al mio orologio al titanio. Segnava le 8:32 del 12 Marzo 2072. Proprio quello che avrebbe dovuto segnare. In fondo perché avrebbe dovuto segnare qualcosa di diverso se salto c'era stato lui aveva saltato con me. Formidabili questi orologi con pile al titanio, con una pasticca grande come mezzo franco potevano funzionare anche per dieci anni. Una radio con una pasticca grande come dieci franchi avrebbe funzionato per quindici anni. Ormai anche i televisori erano a pile di titanio, con un cilindro alto dieci centimetri per un diametro di cinque, riuscivano a funzionare ininterrottamente per oltre vent’anni.

Il titanio era, allora, un materiale a costo praticamente zero. Si ricavava dalla distillazione dell'acqua marina. Questo procedimento cominciò ad aver credito intorno al 2015, quando il petrolio finì. La trasformazione dell'acqua marina avveniva tramite un processo di distillazione che si avvaleva dell'elettricità prodotta dalla combustione di ossigeno. Il professor Kubilan aveva ideato una sorta di moto perpetuo, un circolo chiuso e vizioso per il quale serviva inizialmente una piccola quantità di energia esterna dopodiché avrebbe provveduto da solo al suo mantenimento. Dalla distillazione dell'acqua marina oltre al titanio si ricavava l'ossigeno che veniva immediatamente immesso nel bruciatore così da poter distillare altra acqua. Il basso costo d'esercizio dei macchinari e l'incredibile abbondanza di materia prima aveva portato alla rapida e capillare diffusione di elettrodomestici, automobili, computer al titanio. Interi quartieri sfruttavano il titanio per l'illuminazione delle vie. In capo a trent’anni tutto ciò che necessitava di energia elettrica funzionava con pile al titanio. Anche le metropolitane.

Mi ero ormai convinto che qualcosa di immenso ed apocalittico era accaduto e che io in virtù di chissà quale strano caso avevo saltato a piè pari quell'evento, ritrovandomi mio malgrado nel post. Ero altresì convinto di essere l'unico ad aver beneficiato di quel caso, benché sperassi non fosse così.

Lasciai la Tour Montparnasse alle mie spalle e mi diressi lungo Boulevard de Rennes. Volevo raggiungere il centro Pompidou dove un immenso calendario perpetuo al titanio era stato inaugurato tre mesi prima, secondo il mio punto di vista. Chissà forse era sopravvissuto alla catastrofe ed avrebbe potuto dirmi dove ero o meglio quando ero, perché i miei dubbi si erano trasformati in certezze.

Percorrevo Boulevard de Rennes osservando tutto con avidità. Negozi, uffici tutto rigorosamente sprangato. Le saracinesche abbassate facevano intendere non una fuga improvvisa ma un cosciente abbandono. Non vi erano, difatti, automobili abbandonate in mezzo alle strade o negozi spalancati lasciati in tutta fretta. Tutto sembrava essersi svolto con metodica precisione . Accanto all'edicola che sovrastava la fermata del metro a Saint Placide, giaceva un pacco di giornali ancora avvolti nel loro cellophane. Mi precipitai su di essi e dopo aver fatto scempio dell'involucro ne trassi finalmente un quotidiano . Un Le Monde del 12 Marzo 2109 . Un quotidiano di 37 anni fra ...

Ero ancora assorto nella contemplazione di quel foglio quando un rumore mi destò. L'inconfondibile rumore di un motore al titanio. Voltai subitamente la testa in cerca della fonte ma non vidi niente nonostante tutto continuavo a sentire quel rumore. A momenti pareva avvicinarsi a momenti scomparire . Non mi mossi per paura di perdere l'occasione. Non avrei voluto mancare se la fonte di quel rumore fosse passata di là ma contemporaneamente avrei voluto andarla a cercare per le stradine adiacenti. In breve tutto tornò silenzioso ed io rassegnato ma rinfrancato presi a leggere la prima pagina del quotidiano.

In prima pagina una ben strana notizia campeggiava. Era stata finalmente messa a punto una macchina in gradi di provocare lo scioglimento rapido e controllato dei ghiacci polari. Riconosco di non essere mai stato molto ferrato in materie scientifiche ed in scienze naturali e forse proprio per questo che ai miei occhi di profano quella notizia sembrò una burletta. Che idea sciogliere i poli.

Dispiegai il giornale e continuai a leggerlo riprendendo il mio cammino. Sicuro della mia solitudine, archiviato quel motore sotto la voce "suggestione", procedevo sicuro e spedito verso la Senna, che avrei dovuto attraversare per raggiungere il centro Pompidou. All'incrocio di Rue de Rennes con Boulevard Saint Germain, proprio di fronte alla chiesa di Saint German de Pres, mi trovavo nel bel mezzo della via quando udii nuovamente quel rumore. Abbassai il giornale e tesi l'orecchio. In quella totale assenza di rumori mi sembrava venire da ogni lato. D'un tratto il suono di un clacson sintetizzato mi costrinse a voltarmi sulla mia destra. Un immenso autobus verde e bianco si dirigeva su di me. Inebetito non riuscii a muovere un passo. Il mezzo si allargò alla sua sinistra passandomi alle spalle e riprendendo di seguito il suo cammino, all'incrocio svoltò a destra e lo osservai istupidito mentre dopo aver percorso Rue Bonaparte svoltava sul Lungosenna di direzione di Pont du Carousel. Diavolo... ma allora c'era qualcun'altro. Solo allora mi ripresi, mollai il giornale e gli corsi dietro. Quando arrivai sul Lungosenna stava svoltando alle Tuileries e scomparve dietro la gigantesca mole del Louvre.

Non era stata suggestione questa volta ero stato quasi investito da quel grosso pullman. Già che ero sul Lungosenna mi diressi verso Pont Neuf costeggiando l'Institute de France. Giunto all'altezza del ponte mi voltai a guardare Rue Dauphine, così vuota. Attraversai lentamente e distrattamente la Senna. Ero sull'altra sponda quando congetturai così: se dall'alto della Tour Montparnasse avevo udito il gorgogliare del Trocadero, che si trova da essa in linea d'aria a quasi quattro chilometri, perché non avevo sentito lo scorrere della Senna? Tornai sui miei passi e potete immaginare il mio stupore non vedendo la Senna, o meglio non vedendo le acque della Senna. Al suo posto una lunga striscia di fango, essiccato e crepato, come le zolle del Sael. Un Bateaux Mouche, normalmente ancorato, poggiava sul fondo che essendo diventato da melmoso solido lo aveva intrappolato, così che sembrava essere affiorato da quel fango, piuttosto che essersi adagiato su di esso.

La Senna, la mia bella Senna, non esisteva più, prosciugata. L’Ile de la Citè e l’Ile St. Louis, si ergevano dal suo letto. Non davano più l'idea di essere il cuore della città, ma due collinette come tante altre, non vi era colore a Parigi quella mattina, tutto era grigio, come gli alberi.

Ripresi il mio cammino lungo la Quai de la Messegerie, fino a Place du Chatelet dove svoltai per Boulevard de Sebastopol, passando indefferente ai piedi della Tour St. Jacques, accanto alla chiesa di St. Merri, e finalmente giunsi in vista del le Centre Pompidou. Il calendario doveva essere all'esterno ma non v'era, forse sull'altro lato. Circumnavigai disperatamente l'edificio e solo quando fui in Rue de Rambuteau vidi le grandi cifre rosse campeggiare sulla facciata, unica nota di colore di quel palazzo che era stato sfavillante e che ora appariva di varie tonalità di grigio con decorazioni color ruggine. Segnava le 9:20 del 12 Marzo 2115.

Devo ammettere che non mi sorpresi più di tanto, in fondo ne ero convinto ed in quel momento non mi importava neppure sapere come ero arrivato là ma più di tutto avrei voluto sapere cosa era successo a Parigi ed ai suoi 12 milioni di abitanti, e se era stata la sola metropoli a subire quella sorte. New York, Londra, Roma, Berlino, Madrid, erano anch'esse deserte o solo Lutetia  era caduta così in disgrazia?

In quell'istante si fermò di fronte a me quell'autobus bianco e verde aprendomi le sue porte, vi balzai dentro e mi precipitai al posto di guida ma non v'era nessuno, o meglio non v'era proprio il posto di guida. Nei giorni in cui era partito, diciamo così, si stava sperimentando un sistema di trasporti cittadini basato su autobus al titanio, autosufficienti. Dotati di sensori che gli permettevano di fluire nel traffico e di riconoscere le segnalazioni dei semafori e degli addetti al traffico. Molto probabilmente questo esperimento aveva avuto buon esito ed io ne stavo provando gli effetti. Evidentemente quando tutti partirono ci si dimenticò di disattivare questi mezzi che grazie alle loro favolose pile, noncuranti dello sfacelo circostante, continuavano a svolgere il loro lavoro, rispettando le fermate, ad una della quali io ero salito.

Ripartito imbocco Rue Renard ed in vista dell'Hotel de la Ville prese Rue de Rivoli, fino a Place de la Bastille, proseguendo per Boulevard de la Bastille, costeggiando il Port de Plaissance de Paris che si formava alle acque del Canal St. Martin che scorreva sotterraneo da Rue de Temple a Place de la Bastille, sotto Boulevard Richard, provenendo dal deflusso del Bassin de la Villette, che raccoglieva le acque provenienti da Canal de l'Orurcq. Dopo Rue de Bercy e Boulevard Diderot andò a sistemarsi sotto una pensilina di fronte alla Gare de Lyon, dove molti suoi simili si muovevano, spostandosi da una pensilina all'altra in uno spettrale silenzio.

Vagavo senza meta in quella selva di mezzi meccanici, forse gli ultimi viventi di Parigi. Entrai quasi per sbaglio nella stazione e mi ritrovai ai marciapiedi di partenza dei treni. Quattro TGV sostavano placidi sui loro binari, su di loro il tempo sembrava non aver fatto effetto, le loro lamiere in lega ultraleggera ed incorruttibile, verniciate con materiali indistruttibili avevano resistito agli anni, e solo adesso mi chiedevo da quanto tempo tutto fosse così... autonomo. Il giornale che avevo trovato portavo la data del 2109, 6 anni prima. Una voce sintetizzata risuonò nell'aria, dagli altoparlanti la "signorina elettronica" avvertiva che il TGV 201 stava per partire, destinazione Torino, fermate intermedie a Lione e Digione. Non appena tornò il silenzio, il ronzio del potente motore elettrico del treno ne prese il posto, e svogliatamente il convoglio si mosse, scivolò tra i suoi fratelli e dopo aver dribblato gli scambi, scomparve dietro gli edifici della stazione. Mi convinsi allora che anche Torino doveva trovarsi nelle stesse condizioni di Parigi, altrimenti quel TGV non avrebbe continuato a fare la spola.

Corsi fuori come invasato, dovevo tornare al punto di partenza, dovevo ritornare là dove tutto era cominciato e forse sarebbe finito, cercai correndo da una pensilina all'altra, il 22, l'autobus che collegava la Gare de Lyon alla Tour Montparnase, lo trovai e vi balzai sopra, dopo pochi minuti le porte si chiusero ed il manufatto metallico si mosse. Attraversammo quel che rimaneva della Senna, passando sul Pont d'Austerliz. Lungo Boulevard Auguste Blanqui, incrociammo un altro di quegli auto, quando si passarono accanto fecero risuonare entrambi i loro clacson sintetizzati, come facevano i vecchi conducenti quando incrociavano un loro amico. Scesi all'altezza di Rue Dauguerre e corsi, corsi fin all'entrata del metrò. Era ancora sprangata. Mi precipitai giù per le scale, afferrai le inferriate e le tirai violentemente verso di me, le catene si spezzarono ed io colto impreparato caddi all'indietro sulle scale, accanto a me volò il lucchetto. Tentai di prenderlo tra le mani, ma non appena lo strinsi un pò di più si sfece, come un sasso di terra secca. Mi catapultai nell'interno della stazione sotterranea.

Era tutto immerso nell'oscurità, ma ne conoscevo abbastanza bene il dipanarsi per raggiungere senza troppi problemi i marciapiedi dei treni. Sentivo di schiacciare qualcosa camminando e mi resi presto conto che si trattava di cocci di vetro, i vetri delle vetrine e delle biglietterie erano sparsi per terra. Saltai i cancelletti e mi ritrovai nelle gallerie dei convogli. Speravo che quel titanio che permetteva ad autobus e TGV di muoversi, e che con tutta probabilità, faceva funzionare ancora l'ascensore della Tour Montparnasse, conducesse a me un metro, uno qualunque.

Sconsolato da quel silenzio mi sedetti sui cocci appoggiando la schiena ad una colonna. Passò non so quanto tempo da quel momento quando sentii un sibilo, il classico sibilo del metro. Scattai in piedi e cercai di capire da che parte venisse il sibilo. Ero ad egual distanza dalla galleria di destra come da quella di sinistra, la mia testa si muoveva come ad una partita di tennis, no... di ping-pong. Una ventata d'aria fuoriuscì dalla galleria di destra e subito dopo un convoglio si fermò sul binario del marciapiede opposto, non potevo raggiungerlo, avrei rischiato di rimanere folgorato sulle rotaie. Ripartì sotto il mio sguardo attonito. Era appena scomparso nella galleria di sinistra quando dalla medesima sbucò un nuovo convoglio, questa volta dalla parte giusta. Era velocissimo. Sembrava non volersi fermare, mi accostai, lo sfiorai con le mani ed ingenuamente tentai di fermarlo, come si ferma una macchina senza freno a mano, venni colpito, sbalzato lontano, battei la testa contro qualcosa ...

Svenni e quando mi risvegliai davanti ai miei occhi fioriva una selva di gambe. Un paio di esse che sbucavano da un paio di scarpe da ginnastica fosforescenti, si piegarono, alzai di poco lo sguardo ed incontrai quello di una ragazza bionda che dopo essersi liberata il viso dai capelli con una mano mi chiese molto gentilmente: "Sta bene? Si è fatto male?".

Non capivo niente, tutto era confuso ed annebbiato, ero riverso a pancia sotto sul pavimento, provai a girarmi, qualcuno gridò: "Non lo faccia!".

Ma io l'avevo già fatto. Ripresi immediatamente la mia posizione lanciando un grido. Il mio piede sinistro era bloccato tra il gradino metallico del vagone del metro ed il marciapiede in pietra.

 -"Non c'è niente di rotto. Proviamo a togliergli la scarpa".
 -"No, non serve. E' la caviglia incastrata".

Erano due addetti del metro che discutevano sul modo migliore di liberarmi. Uno dei due imbracciò una radiolina portatile e comunicò, probabilmente al macchinista.

 -"Vai avanti con i milliamper".

 Lentissimamente il treno si mosse, il mio piede si piegò sulla destra, sotto la pressione del movimento. Durò pochi secondi.

 -"Ecco fatto"-disse l'addetto quando il gradino finì-"è libero"-mi prese per le braccia e mi rimise in piedi-"la prossima volta stia più attento, la fretta è cattiva consigliera".

 -"Vai"-gridò nella radiolina. Il convoglio, dapprima lentamente poi sempre più velocemente venne inghiottito dai cunicoli.

 -"Circolare non c'è più niente da vedere".

Il drappello di persone che mi si era radunato attorno si era disperso, tranne la ragazza bionda. Mi stavo scrollando la gamba quando mi fece:"Bisogna stare attenti sa. Vede io porto queste scarpe larghe"-e mi mostrò le suole delle sue calzature -"queste di riffa o di raffa lì non c'entrano"-ed indicò i binari.

Uscii all'aperto. Tutto normale. Rumori, caos, traffico. Di fronte a me la pubblicità del futuro satellite Europa. Un pianeta artificiale che si stava costruendo sull'orbita lunare, autosufficiente e dove si potevano già prenotare villette bifamiliari. Non so perché ma vendetti tutto quel che possedevo e ne comprai una.

Oggi, 20 Aprile 2120, ho settant’anni e vivo in questa villetta bifamiliare del satellite Europa con la ragazza del metrò, che nel frattempo è diventata mia moglie, e con tre figli . Guardo dalla finestra della mia camera la Terra. Non ha più bianche nuvole, ne celesti mari, ne verdi praterie. Solo un ammasso nerastro nello spazio. L'enorme diffusione delle pila al titanio ha provocato, col passare degli anni, un eccessivo sfruttamento dell'acqua marina finché non si è raggiunto il continer, ossia si distillava molta più acqua marina di quanta le precipitazioni atmosferiche non provvedessero a produrne, cosicché si è in breve raggiunto il punto di non ritorno. Gli oceani cominciarono a ritirarsi, nel 2110 si tentò di sciogliere artificialmente i poli, non per far fronte al problema, ma per permettere agli ultimi uomini di abbandonare il pianeta. Io fui tra i primi a trasferirmi qui, quando capii che il sogno di quella mattina era stata una premonizione. Nel 2112 solo poche città sul Mediterraneo erano ancora abitate. Oggi più niente.

Guardo quella palla di terra nello spazio e penso che là nelle sue città grazie a quella maledette pile al titanio, le macchine sono rimaste padrone del territorio. Vagano tra i monumenti e le vestigia dell'uomo. Di tanto in tanto un'esplosione vulcanica squassa la superficie lanciando nello spazio, l'atmosfera si è ormai dissolta, rosse lame di fuoco, che nelle notti più buie rischiarano l'atmosfera artificiale di questi satelliti, che sono in tutto 20 con una media di 500 milioni di persone per ognuno. Mentre laggiù, forse, le fontane del Trocadero, grazie alle pile al titanio ed al sistema di riciclo dell'acqua funzionano ancora.

Roma 1 Febbraio 1992
 

Ultimo aggiornamento ( sabato 07 aprile 2007 )
 
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