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Malakoff PDF Stampa E-mail
Scritto da Administrator   
giovedì 05 aprile 2007

Era li, davanti a me, con l’aria di chi volesse interrogarmi. Eppure era morta da più di trent’anni; io l’avevo uccisa, sparandole un colpo al cuore in Avenue Dumont; poi l’avevo infilata in un sacco di plastica, caricata sulla macchina e trasportata al Cimitero di Montrouge, giù a Malakoff, dove con la complicità di un custode, l’avevo sepolta in una tomba abbandonata. E adesso lei era lì, a fissarmi, seduta su una panchina di fronte alla mia nel Parc Montsouris, a neppure tre chilometri da dove l’avevo uccisa, a neppure due chilometri da dove l’avevo sepolta.

La conobbi nell’inverno del 1988. All’epoca ero molto depresso anche se gli affari andavano a gonfie vele, o forse proprio per quello; mi rendevo conto che stavo raggiungendo con troppo anticipo un obbiettivo il cui conseguimento avrebbe dovuto impegnarmi per tutta la vita: ero diventato ricco ed importante alla soglia dei trent’anni. Vedevo davanti a me una vita da vivere senza più uno scopo, ciò che mi sembrava estremamente difficile ed a cui avevo deciso di dedicare tutto il mio tempo si era rivelato molto più semplice del previsto.

Un amico mi disse: “Quello che ti ci vuole è una ragazza”.
Facile a dirsi ma uno come me che negli ultimi dieci anni non aveva fatto altro che lavorare si era dimenticato come si conquista una ragazza, ma probabilmente non lo avevo mai imparato.
“Ma non devi conquistarla, non fare il romantico” – aggiunse - “Devi solo svagarti, goditi i vantaggi del denaro
Mi diede un numero di telefono e mi disse - “Va a nome mio”.
La sera stessa composi quel numero. Mi rispose una voce suadente dissi ciò che dovevo dire e ne ebbi in cambio un indirizzo. Uscii alcuni istanti dopo per recarmi in Rue Vavin, di fianco ai Jardin du Luxembourg.
Al numero 9 trovai uno splendido portone in legno e vetro, circondato da movimentate decorazione marmoree, un esempio meraviglioso di Art Noveau. Il citofono era in ottone rilucente, c’erano pochi nomi, suonai alla scritta “Atelier”, il ronzio della serratura elettrica precedette lo schiocco del portone che si apriva. Salii le ampie scale fino al terzo piano; ero appena arrivato sul pianerottolo quando la porta si aprì mostrandomi una ragazza vestita con un’accattivante vestaglia di raso che lasciava appena intravedere alcuni pizzi sotto di essa, mi squadrò cercando di capire chi fossi, imbarazzato ricordai le istruzioni del mio amico “A La Maison si entra soltanto su presentazione”. Frugai nelle tasche alla ricerca del mio invito, nel frattempo la ragazza mi guardava con curiosità, finalmente trovai quel cartoncino giallo che mi aveva dato il mio amico e lo mostrai, si scostò facendomi cenno di entrare.
Appena la porta si richiuse alle mie spalle mi ritrovai in un ampio vestibolo, la ragazza mi invitò a seguirla attraverso un corto corridoio, fino ad una pesante tenda rossa, dietro scoprii un discreto salottino dove alcuni distinti gentiluomini si intrattenevano con ragazza succintamente vestite, in un angolo c’era un bancone da bar con una ragazza alla mescita. La ragazza che mi aveva aperto mi indicò un divanetto e mi chiese : “Cercava qualcuna in particolare?”, come mi aveva suggerito il mio amico risposi “Emy”.
“Attenda, vado a chiamarla” – mi rispose, esitò, poi aggiunse – “Lei sa che Emy … “ – non la lasciai finire, sapevo – “Conosco le tariffe” dissi con durezza – “grazie”, aggiunsi in tono gentile per mitigare lo scatto di un secondo prima, dovuto certamente al nervosismo. Credo che nella vita di ogni uomo prima o poi capiti, o capiterà, di pagare una donna, ma a me non era mai capitato, ancora, ed oltrepassare quella soglia pur irritandomi mi dava l’impressione, per qualche attimo, di tornare tra gli uomini normali, anche se facevo parte di quella categoria di persone che non hanno bisogna di chiedere “Quanto costa ?”.
Passarono alcuni minuti nei quali vidi degli uomini allontanarsi in varie direzioni con le ragazze, dal salottino partivano diversi corridoi ognuno coperto da tende. La ragazza tornò e mi invitò a seguirla attraverso un lungo, lunghissimo corridoio che dava l’impressione di girare intorno alla casa, salimmo alcuni gradini, poi altri ed altri ancora, fino a trovarci dinnanzi ad una grande porta in noce lavorato, la ragazza la spinse ed io entrai dietro di lei, ci trovammo in un grande salone pieno di luce, arredato in stile sobrio ma incredibilmente elegante. Richiuse la porta alle sue spalle e mi lasciò solo.
Mi guardai intorno e mi diressi verso le porte finestre che davano su un ampio terrazzo dal quale si vedeva il palazzo del Lussemburgo e più a sinistra la cupola di St. Suplice. Sentii dei passi e mi girai. Era bellissima ! Coperta da una vestaglia in seta bianca con riflessi madreperlacei, lasciata aperta per mostrare una biancheria anch’essa bianca, di pizzi finissimi che lasciavano intravedere, senza tema di smentita, forme e colori.

Mi accompagnò in una stanza più piccola, molto graziosa, aprì una porta che dava su un bagno piccolo ma ricoperto di marmi multicolore. “L’attendo di là”, disse semplicemente chiudendomi dentro. Un po’ stordito da tutto l’insieme mi spogliai, mi feci una doccia rilassante ed indossai l’accappatoio azzurro che sembrava messo lì apposta. Rientrai nella grande stanza, una fila di tende finissime era stata tirata, abbastanza per chiudere la vista all’esterno, abbastanza per non bloccare la luce di una giornata radiosa. In fondo alla grande stanza, in una zona priva di porte o finestre era sistemato un letto enorme, le coperte erano tirate e ordinatamente ripiegate ai piedi, una decina di cuscini ben disposti completavano l’opera.

Emy apparve come dal nulla dirigendosi verso una console, con gesti studiati ed apparentemente noncuranti si tolse le poche vesti che indossava, rivelando un corpo ancora più perfetto di quanto già si potesse abbondantemente intuire. Si diresse verso di me mi prese per mano e mi condusse verso il letto, mi tolse l’accappatoio e lo depose su una sedia invitandomi a sedere sul letto, si sedette accanto a me e mi accarezzò nelle parti più sensibili finché non giudicò di avere ottenuto quel che cercava, allungò una mano verso il comodino e da un cassetto estrasse una piccola bustina quadrata, accennai una protesta. Mi rispose con gentilezza ma con tono fermo e senza possibilità di replica. “Il mio corpo è in vendita, non la mia vita. Senza questo non esiste tariffa”. Non c’era alternativa.

Probabilmente suonò un invisibile campanello perché quando uscii dalla stanzetta con il bagno, rivestito di tutto punto, la grande porta d’ingresso si aprì e riapparve la ragazza che mi aveva accompagnato lì. Emy mi accompagnò alla porta, passò alla ragazza un foglietto e stringendomi la mano disse “Spero vorrà essere nuovamente nostro cliente”.

Seguii di nuovo la ragazza attraverso i corridoi fino al salottino d’ingresso dove mi chiese “Contanti o carta di credito ?”, un po’ interdetto dalla domanda, senza rispondere estrassi dal portafogli una carta di credito senza accorgermene, da sotto il bancone del bar lei recuperò la classica macchinetta. Inserì la carta e mi invitò a digitare il codice. Quando fui in strada mi accorsi che il Sole stava per tramontare, un’occhiata all’orologio mi disse che erano passate quasi quattro ore dal quando ero entrato in quel portone.

Da quel giorno tornai a varcarlo con regolarità, tutti i Lunedì pomeriggio. Qualche tempo dopo, controllando distrattamente l’estratto conto della carta di credito scoprii quale fossero le tariffe di Emy, decisamente notevoli. Nessuno però, ne sono sicuro, avrebbe mai avuto il coraggio di dire che non erano giustificate dalle prestazioni. Passò l’inverno e la primavera. All’inizio dell’estate mi capitò nuovamente per le mani l’estratto conto della carta di credito e scoprii con stupore che le tariffe di Emy erano crollate. Ad occhio stimai una riduzione del 90%.

Quel Lunedì prima di andare nella stanzetta privata a rivestirmi le dissi “Non chiamare la ragazza, devo parlarti”. Quando uscii la trovai su uno dei divani della sala, aveva indossato la vestaglia, senza chiuderla, ma non portava la biancheria. Stava leggendo uno di quei libri in edizioni economica che normalmente si trovano sulle bancarelle del Quai de Montebello, appena mi vide lo posò sul tavolino, notai che si trattava di “Doppio Sogno di Arthur Schnitzler, rimasi stupito dalla profondità della lettura.

Da uomo d’affari quale ero andai subito al sodo : “Le tue tariffe sono precitate, c’è qualche problema ?”. Sorrise. “Non mi faccio pagare per divertirmi ma per divertire” – fece una pausa – “Il 10% di quello che incasso va alle ragazze che lavorano qui dentro”. Si alzò, prese il libro e in quel momento si aprì la porta ed apparve la ragazza, uscendo la vidi con la coda dell’occhio spostare una tenda e sparire, là, dove doveva esserci solamente un muro.

Tornando verso casa riflettei su quelle parole. In sostanza con me si divertiva e per questo rinunciava al suo compenso, ma non a quello delle ragazze. Controllai tutti gli estratti conto e scoprii che già dal terzo incontro le tariffe erano calate di qualcosa e che al settimo erano state ridotte fino al solo 10% delle ragazze. Fu come una folgorazione, un lampo attraversò i miei neuroni. Non fingeva !!!

Il Lunedì successivo sembrava non fosse accaduto nulla, il rituale si ripeté come sempre ma questa volta aguzzai, lo sguardo, l’udito, l’olfatto, tutto quello che potesse servirmi ed ebbi la conferma che Emy non stava lavorando. Si stava divertendo !

Per l’ennesima volta seguii la ragazza lungo i corridoi, le cedetti per pochi istanti la mia carta di credito e rimasi ad indugiare. Conoscendomi da ormai molti mesi e sapendo la predilezione della sua padrona per me mi lasciò lì senza preoccuparsi. Ciondolai nel salottino con fare indifferente ed appena ritenni si presentasse l’occasione varcai la soglia della tenda che conduceva verso Emy, ripercorsi quei corridoi che ormai conoscevo bene, non esitai davanti alla grande porta in noce, la spinsi ed entrai.

Dentro non c’era nessuno, la stanza era buia, le finestre erano state chiuse e le tende tirate, aspettai che i miei occhi si abituassero un po’ all’oscurità ed allora notai la sottilissima lama di luce che filtrava da una tenda. Quella tenda dietro la quale l’avevo vista sparire. Quella tenda che dava l’idea di coprire solamente un muro. La scostai guardingo e scoprii una scala, stretta e ripida, saliva verso l’alto con una pendenza eccessiva. La salii con circospezione, i gradini in legno non fecero alcun rumore. In cima trovai un minuscolo pianerottolo, un’anonima porta aperta. Entrai.

Davanti ai miei occhi si aprì una mansarda con tre finestre ad abbaino che guardavano in direzione di Place de Qzanam. Sulla parete di fronte alla porta si trovava una enorme libreria che occupava la parete da una parte all’altra, scaffali ricolmi di libri, tranne che in quell’arco centrale dove era collocata una scrivania, un inconfondibile, originale scrivania Chippendale. Su di essa una lampada stile Old America con vetro opaco verde all’esterno e bianco all’interno, era accesa su alcuni fogli disposti sullo scrittoio in pelle. Penne ed oggetti, tutti chiaramente di valore, oltre che venale storico, affollavano la scrivania. Una rapida occhiata alla libreria, giusto per notare l’assortimento di libri in almeno sei lingue, nella parte destra quasi tutti trattavano di diritto ed economia mentre nella parte sinistra si trattava di classici antichi e moderni, alcuni erano nell’edizione originale e dovevano avere un inestimabile valore. Tra gli altri notai un rarissimo “Renascentes Litterae” del 1538 ed un’”Art Poetique” del 1674, entrambi in edizione originale dell’epoca. Sulla parete opposta alle finestre, che si trovava a destra della porta una serie di foto ed attestati. Osservai con interesse le foto di una Emy giovanissima stretta ad un ufficiale delle Giubbe Rosse in alta uniforme, forse il giorno del giuramento,  in un’altra era seduta ad un lungo tavolo, sembrava una riunione di quelle che si vedono alla televisione, di quelle delle comunità Europea, difatti notò che l’uomo che le sedeva accanto era un ex ministro degli Esteri francese, un’altra la riprendeva mentre riceveva la Legion d’Onore dalle mani del Presidente. Stranito da quelle immagini posai l’occhio sui tre quadri centrali. In elaborate cornici dorate, disposte al centro della parete, trovavano posto una Laurea in Legge presa alla Sorbona, una Laurea in Economia ed una in Lingue e Letterature Comunitarie.

Ancora stordito da quel che avevo visto udii squillare il telefono, sentii dei passi, non avevo notato che a sinistra della porta c’era un’altra porta che probabilmente portava verso una camera da letto od un bagno, udii infatti un cigolio, un rubinetto che veniva chiuso. Mi precipitai per le scale appena un attimo primo che Emy apparisse nella stanza e si dirigesse verso il telefono sul tavolino sotto una finestra. La vidi stando accucciato sulle scale, nuda con un asciugamano sulle spalle. La udii parlare al telefono, con un tono strano, professionale. “Certamente Signor Ministro” – una lunga pausa – “Le tariffe sono sempre le stesse” – un’altra pausa – “Tra un’ora sarò lì”.

Scappai via, giù per le scale, corsi lungo i corridoi, il salottino era vuoto, le luci spente, i clienti andati via, lo attraversai lentamente e corsi fuori. Le tempie mi pulsavano. Ma un’idea folle affiorò. Mi nascosi all’incrocio di Rue Saint Beuve ed attesi che uscisse. Era vestita con un lungo impermeabile verde, ma si intuiva che sotto aveva un elegante abito da sera. Percorse tutta la Rue Vavin fino alla fermata del Metro. Facendo attenzione a non farmi scorgere la seguii, salii sulla carrozza dopo la sua e quando dopo due fermate scese a Denfert scesi anche io, pedinarla negli affollati cunicoli della stazione di Denfert non fu difficile, neppure celarsi sui marciapiedi della Linea 6 fu difficile, ancora una volta salii sulla carrozza dopo la sua ed attraverso i vetri la tenni d’occhio. Scese solamente a Kleber, una fermata prima del capolinea. In Rue de Kleber svoltò per Avenue de Portugas e si infilò nel palazzo del Centro delle Conferenze Internazionali.

Dopo alcuni minuti d’attesa decisi che dovevo entrare. Fortunatamente non era la prima volta che mi recavo in quell’edificio, con il mio lavoro ero riuscito ad entrare ovunque, e conoscevo molte persone. Stavo per dirigermi all’entrata quando la vidi uscire sottobraccio ad un pezzo grosso americano, lo conoscevo bene, un senatore, presidente di una commissione per un, a me ben noto, tipo di affari. Attraversarono la strada e si diressero, attraverso una stradina laterale, verso Rue Dumont, dove entrarono in un portone.

Aspettai più di due ore sulla strada, di fronte a quel portone, cercando di capire per quale motivo Emy si era recata, con quel senatore, che da anni mi dava invano la caccia, proprio nel palazzo che ospitava alcuni uffici dell’Interpol. In due ore ebbi molto tempo per rimuginare su tutto quello era e stava accadendo. Lo strano comportamento di Emy nei miei confronti, le sue Lauree, la sua cultura, il suo lavoro, le sue conoscenze, tutto sembrava coincidere perfettamente, tutto sembrava concorrere alla mia fine, mi sentivo come se un cerchio mi si stesse stringendo attorno, il senatore, Emy, il Ministro, tutto sembrava andare a posto, ogni casella coincideva con le altre, anche quel carico di armi nascoste nella stiva di una nave partita da Marsiglia. Quelle armi che si trovavano adesso nel Mar Nero e che attraverso la Georgia, l’Armenia e la Turchia sarebbero arrivate, di lì a pochi giorni, a Shirqat, nel Nord dell’Iraq sotto embargo. Era tutto spaventosamente chiaro. Mi stavano braccando ed Emy era il collegamento, ero stato tradito. Ma da chi ? Da quell’amico che mi aveva dato il suo nome ? No, troppo stupido, probabilmente era stato avvicinato e chissà come convinto a farmi questo regalo. Tutto combaciava, tranne … tranne quel sincero e spassionato trasporto di Emy nei miei confronti. Su quello non potevo avere dubbi, lo avevo constatato, toccato con mano. Eppure … alla fine di quel lungo e cervellotico ragionamento, anche quell’unico punto a suo favore divenne la certezza del tradimento. Era una professionista, una che sapeva fingere fino alla realtà. Paranoicamente accecato da quelle congetture la vidi uscire dal portone, era sola. Si diresse verso Nord, probabilmente tornava a prendere il Metro. La seguii, la strada era deserta, camminava a passo svelto, probabilmente non voleva perdere l’ultima corsa. Appena prima dell’incrocio con Rue Vacquerie la chiamai. Si girò, mi guardò stupefatta, mai quanto me quando udii il colpo. Senza rendermene conto avevo impugnato la Derringer a due colpi che portavo sempre con me e mentre le gridavo “Puttana” le avevo sparato. Cadde immediatamente al suolo, il colpo era stato preciso ed una chiazza di sangue apparve appena sotto la clavicola. Corsi verso di lei, riversa al suolo, era ancora viva, mi guardò con i suoi occhi increduli e nuovamente feci fuoco con il secondo ed ultimo colpo senza curarmi di dove lo indirizzassi, il suo corpo sussultò e reclinando la testa di lato chiuse gli occhi.

Passarono forse due minuti nei quali rimasi immobile a guardarla sul selciato attraverso il fumo lasciato dal colpo. Mi ridestati all’improvviso tornando lucido, la tirai su e la sistemai contro il muro, come se fosse una barbona, rubai da un cassonetto a pochi metri alcuni giornali e pezzi di cartone e la coprii, sembrava proprio un clouchard. Afferrai il telefonino e chiamai chi dovevo.

Il custode del Cimitero di Montrouge, giù a Malakoff mi doveva parecchi favori e dopo mezzora arrivò con la sua scassatissima Renault 4. La gettammo nel vano di carico come un sacco di patate dopo averla infilata in un sacco di cerata nero che aveva rubato dalla camera mortuaria del cimitero. Attraversammo tutto Malakoff, con la sua aria da periferia dimessa, palazzoni e vecchie case. Arrivammo al cancello, era aperto e lo oltrepassammo, la vettura procedette sicura tra i viali del piccolo cimitero, i fari illuminavano appena le tombe, molte malandate. Montrouge era stato un sobborgo di Parigi, uno di quei graziosi paesini dove ai tempi della Belle Epoque si andava a passeggiare ed a respirare l’aria buona, poi con l’espandersi della città era stato intrappolato, racchiuso nel quartiere di Malakoff, i casali e le fattorie scomparsi, avevano lasciato il posto a palazzi di venti piani ed uffici. Il cimitero era ormai semi abbandonato. La macchina si fermò vicino ad una specie di cappella recintata con del nastro bianco e rosso. Scese e si diresse verso una tomba al suolo lì vicino. Sussurrando mi disse “E’ abbandonata da decenni, sta crollando, non è stato possibile trovare nessun erede, la settimana prossima l’autorità cimiteriale verserà una colata di cemento sulla pietra tombale”, facevano così per evitare che le tombe abbandonate diventassero depositi di droga o peggio, tombe clandestine per omicidi mai scoperti. Ironia della sorte. Con un piccone spostò la pietra tombale che scricchiolò e gemette. Afferrò il sacco con Emy e, senza alcun riguardò, la gettò nella fossa. Fece un rumore agghiacciante quando, arrivando in fondo, sfasciò alcune casse vecchie di decenni. Rimise a posto la pietra tombale.

Dopo una settimana ricevetti una telefonata “Sono venuti stamattina. Tutto fatto”. L’autorità cimiteriale aveva cementato l’entrata della tomba, senza aprirla, senza controllare. Si erano fidati del custode, brav’uomo che lavorava lì da 45 anni e sapeva tutto di tutti senza mai aprire i registri del cimitero. Non sapeva però il brav’uomo che suo figlio aveva incassato 250.000 franchi per fare esattamente il contrario di quello per cui lui era pagato dal Municipio.

Nei giorni successivi il carico di armi arrivò a destinazione, la trattativa si concluse felicemente in barba al senatore ed all’Interpol e quella faccenda sparì completamente dalla mia mente. Fino ad un paio di mesi dopo quando venni a sapere che il custode del cimitero di Mountrouge era sparito, per un attimo mi preoccupai ma poi pensai che evidentemente aveva scoperto i magheggi del figlio e questi aveva trovato anche per lui una tomba abbandonata prossima alla cementificazione. Per quella gente 250.000 franchi sono abbastanza anche per far sparire il proprio padre. La notizia apparve un paio di volte su un giornale locale, poi sparì, la dubbia fine di un vecchio custode di cimitero non era una notizia capace di tenere banco.

La fissavo, con aria stralunata, credevo di sognare ed avevo paura di essere diventato pazzo, era lì, viva e giovane, come il giorno in cui era morta, viva e giovane. La mia povera mente di quasi vecchio mi stava giocando un brutto scherzo. I miei sessant’anni mi pesavano molto più di quanto non dovessero, l’asma che da alcuni anni mi tormentava mi creava non pochi problemi, una vita sregolata e frenetica me ne avrebbe sicuramente creati altri. Forse era l’inizio di una vecchiaia di follia. Si alzò e venne a sedersi accanto a me. Sembrava quasi non accorgersi di me. Finché non parlò.

“Perché mi hai uccisa ?” – chiese.

Inebetito non mi accorsi minimamente dell’assurdità della domanda e risposi “Tu lavoravi per il senatore, dovevi estorcermi delle informazioni, per incastrarmi”.

“Hai ragione” – disse con aria triste – “ma proprio quella sera ero andata da lui per dirgli che non ero riuscita ad ottenere nulla, per dirgli che eri un osso troppo duro e che con te certi giochetti non funzionavano. Non avevo mai fallito e venivo pagata solamente in base alle informazione che recuperavo. Quindi non avrebbero mai sospettato che non ci avevo neanche provato”.

Rimasi in silenzio.

“Mi ero innamorata di te, avevo capito che c’era del buono in te, volevo aiutarti, questo voleva dire non farti beccare. Ti avrei raccontato tutto all’incontro successivo, per farti capire quanto vicino alla fine eri andato. Per rimetterti sulla strada giusta. Ma tu hai preferito fare di testa tua”.

“Io non sapevo” – dissi in tono di scusa.

“Già … per questo mi hai sparato, dopo che ti avevo dimostrato il mio amore, per questo mi hai dato il colpo di grazia su quel marciapiede guardandomi negli occhi, per questo mi hai fatto gettare in una tomba abbandonata”.

Diceva tutto questo con crescente angoscia, come se fosse accaduto ad una persona di sua conoscenza e non a lei.

“Quella notte stessa” – proseguì – “dopo che tu ed il figlio del custode ve ne foste andati, il padre che da tempo teneva d’occhio il figlio mi ha tirato fuori da lì, non ero ancora del tutto morta. La Derringer ha proiettili molto piccoli, avevo perso moltissimo sangue e non sarei vissuta che pochi altri minuti. Quando è sceso nella tomba, tra casse sfasciate e vecchie ossa ha aperto la cerniera del sacco, ho avuto appena il tempo di dirgli alcune cose. Sono morta mentre mi deponeva nella brandina che si era sistemato dietro la camera mortuaria, dieci minuti dopo essere uscita dalla mia tomba”.

“Ma … cosa … “ – balbettai.

“Non sono un fantasma, sono viva e di carne, ma ero morta” – sospirò, aprì la borsa ed estrasse un libro dalla copertina in pelle nera, consunto dal tempo, con le pagine di pergamena ingiallita. “Aliquem ex media morte eripere ” era il titolo in latino.

“Leggevo un vecchio libro molti anni fa, “La religione degli antichi Celti”, là lessi di questo libro, un libro messo all’indice dalla Santa Inquisizione, il caso volle che in quel periodo avessi come assiduo cliente un alto prelato. A lui chiesi informazioni venendo a sapere dell’esistenza di un settore della Biblioteca Vaticana dove solamente il Papa e pochi altri possono entrare, in questa sezione vengono conservate le Gomoirres, opere e scritti che si attribuiscono al Diavolo ed ai suoi adepti, libri di streghe e anime nere. Libri che contengono formule di magia nera. Il gusto del proibito e la mia passione per i libri antichi hanno fatto il resto. Riuscii a rintracciare una copia sfuggita al rogo e la acquistai a caro prezzo. All’epoca non mi interessava il sapere occulto racchiuso tra queste pagine, anzi le consideravo sciocche superstizioni così misi il libro sullo scaffale e li lo dimenticai. Quella notte mentre l’anziano custode mi soccorreva, come in un delirio, nei pochi minuti di vita che mi rimanevano, lo implorai di prelevarlo dalla mia libreria e di leggerlo. Dopodiché il mio cuore si fermò”

Sospirò.

“Il vecchio lo fece, probabilmente la pena che provava per me, gettata moribonda in una vecchia tomba tra bare rotte ed ossa fu tale fece della questione un fatto personale”.

Aprì il libro e dispiegò un foglio, anch’esso ingiallito ma evidentemente ben più giovane dei 500 e passa anni del libro che lo aveva contenuto. Era ricoperto di una calligrafia incerta, tipica di chi sa leggere e scrivere, ma quel tanto che basta per non essere analfabeta.

“Mi svegliai in una cripta, stordita e stanca, poca luce filtrava attraverso alcune feritoie. Sentivo dolori in tutto il corpo, ma ero viva ! Accanto a me trovai il libro e questa lettera del vecchio custode; il suo cadavere era sul pavimento. Aveva letto il libro, anche se era scritto in una latino arcaico, era riuscito a capirlo, non so come. Aveva messo il mio cadavere nel bagagliaio della sua auto ed era partito alla volta delle terre degli antichi celti, alla ricerca di una vecchia sepoltura di un Re citato nel libro. Li mi aveva deposto nella cripta ed aveva seguito un preciso rituale”.

Sospirò nuovamente.

“Ma la morte non rende una vita se non dietro pagamento di un’altra vita. I conti devono tornare, questo lo comprenderai, sei un affarista”.
“Certo” – dissi come un’idiota.
“ … io sono vecchio, tu sei giovane” – leggeva dal vecchio foglio ingiallito – “morire ridandoti la vita, evitare una morte inutile è ridare senso ad una vita inutile”.
Ripiegò il foglio e richiuse il libro.
“Quello che il vecchio custode non aveva capito, traducendo il libro con il solo aiuto di un vocabolario, era quello che stava scritto tra le righe, quello che non andava semplicemente tradotto, ma interpretato. Il maligno può ridare l’anima al corpo rubandola dal purgatorio ma l’anima che viene data in cambio deve essere sua per sempre”.
Guardò in silenzio alcuni bambini giocare.
“Ha dannato la sua anima per rendermi la mia”.
Restammo in silenzio per diversi minuti, poi riprese a parlare.
“L’anima restituita al corpo lo preserva dall’invecchiamento, come puoi notare, ho trenta anni in più, ma il mio corpo non è invecchiato, quando verrà il mio giorno, quello che era stato scritto come quello della mia morte, morirò, ma morirò giovane, come ho vissuto”.
“Negli ultimi trenta anni ho cercato di rimediare al male che hai fatto a me ed al vecchio custode ed ho trovato questo” – un altro libro uscì dalla borsa, un libro in pelle nere, con cinque coste sul dorso ed un pentacolo inciso sulla copertina, lo aprì alla prima pagina “De Umbrarum Regni Novem Portis ” era il titolo, 1666 l’anno di stampa, poi ne tirò fuori un altro, “da questo sono risalita a quest’altro” - “Ars Diaboli ” stava inciso sulla copertina – “ed infine …” – l’ennesimo libro venne fuori, milioni di franchi in libri d’epoca portati a spasso in una borsa ed appoggiati su una panchina di un parco pubblico – “il libro che non è stato mai scritto, il libro che non esiste, il libro di cui chiunque nega l’esistenza” – osservai la copertina, non c’erano titoli ne altro, la guardai – “Il Delomelanicon ” – ad udire quel nome sussultai, anche se non ero conoscitore di certi argomenti avevo una media cultura ed ai tempi dell’Università qualcosa aveva letto e studiato, un po’ di greco ad esempio, “delo” … convoco, melas … nero. Agitò il libro in aria.
“Secondo la tradizione questo libro è stato scritto da Lucifero in persona ed indica come convocarlo … e come è dove l’ho trovato lo so solamente io”.
Sfogliò rapidamente il vecchio libro e lo appoggiò sulla panchina insieme agli altri.
“Ho fatto un patto con il Diavolo” – mi fissò – “trent’anni fa ho lasciato il corpo del custode in quella cripta segreta, in attesa di riportarlo in vita e sono andata a caccia di questi testi”.
Restai in silenzio.
“Tra due ore volerò in Scozia, voglio essere lì quando si risveglierà” – si alzò e fece per andarsene, recuperò i libri rimettendoli nella borsa – “Brucerò questi libri stanotte stessa, perché altri non possano commettere errori” – li rimise dentro uno per uno. Mi guardò con tenerezza.
“Io ti ho amato e tu mi hai uccisa e gettata tra i morti. Uno sconosciuto ha dannato la sua anima per rendermi la vita. Mi dispiace ma devo rimettere a posto questo tremendo errore”.
Rimasi in attesa della sentenza, anche se il sangue che si gelava nelle vene la preannunciava.
“Stasera morirai e la tua anima pagherà il pedaggio per il ritorno del custode”.
Non disse altro, la osservai allontanarsi bella e fiera come era sempre stata.

Ora che sto scrivendo queste ultime righe mi rendo conto di essere io la causa di tutto, non so se è la paura o la vecchiaia, ma mi sembra di vedere la signora con la falce davanti la mia scrivania, sembra stia attendendo che io finisca questo amaro resoconto. Mi sembra di avere la testa pesante, è come se la stanza si riempisse di nebbia, intravedo qualcosa, una cripta scura, vedo Emy, china su un cadavere mummificato da trenta anni di attesa, il libro nero aperto in mano, lo legge ad alta voce, recita una formula, mio Dioooo la pelle raggrinzita del cadavere si gonfia, riprende colore, il petto si gonfia, sta respirando apre gli occhi, un riflesso, la signora ha alzato la falce, sta per sferrare il colpo, credo che sia giunto il mio moment……….

Roma 4 Marzo 1996
 

Ultimo aggiornamento ( sabato 07 aprile 2007 )
 
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